Dino D’Ascenzo

a cura di Giuseppe Magroni

Le origini

L’officina magazzino da fabbro di Dino D’Ascenzo, che prima fu di suo padre Ovidio, fabbro come lui, è attaccata all’abitazione che sta proprio davanti alle ex scuole elementari, oggi distretto Usl, della frazione di Marmore. Dentro ci sono più di cinquant’anni di lavoro. “Quarantadue anni di lavoro – racconta Dino, 70 anni tra qualche mese – e di contributi versati che mi hanno permesso di andare in pensione, più quelli che mi sono fatto da ragazzo quando andavo a bottega da mio padre mentre studiavo alle professionali (Elettromeccanica ndr) e anche prima”.

Ci sono velocipedi, una ruota grande e una piccola, interamente in ferro,  una delle passioni della sua vita, mazzi di fiori, lampadari, lampioni, testiere di letto, ringhiere, pezzi di cancellate, spade e scimitarre che sono servite per rappresentazioni artistiche, pezzi di presepe, poi le macchine utensili, la forgia, i banconi, infine un piccolo ufficio che racchiude tutti i ricordi: le fotografie, anche quelle in cui faceva l’attore, fogli di giornale con articoli che lo hanno raccontato, una rivista, la prestigiosa Casa bella, in cui Ridolfi lo ringrazia per i lavori in ferro fatti per lui e ancora disegni autografi di Ridolfi, le foto del monumento al Carabiniere al cimitero di Terni in cui lui ha realizzato il cappello, l’antica lucerna stilizzata. 
Cinquant’anni da fabbro, uno degli ultimi veri fabbri di Terni, depositario di una sapienza antica, apprezzato dai clienti e dagli architetti e ingegneri, molti prestigiosi, con cui ha lavorato. Un mestiere in cui si è ritrovato quasi costretto da una tradizione familiare: quella del padre Ovidio, un po’ fabbro e un po’ meccanico.

La storia

“Finita la guerra – racconta Dino D’Ascenzo – mio padre Ovidio ha cominciato ad aggiustare le macchine da cucire, poi le biciclette, allora ce n’erano tantissime, poi ha iniziato a fare qualche saldatura con la forgia ad ottone, poi sono venute le ringhiere che a Marmore hanno sostituito i muretti a secco. Mi ci sono trovato dentro, casa e bottega. A tre anni mi regalarono un’incudine di ferro, un trapano a mano e un martello. Fin da subito ho iniziato ad aiutare mio padre”. Scuole e bottega. Dino si diploma nel 1971, 15 mesi di servizio militare come carabiniere ausiliario, il rapporto con l’Arma resterà una costante per tutta la vita. Poco dopo il ritorno, nel 1974, il padre si sente male e finisce all’ospedale. C’è da completare la ringhiera per una casa a Marmore; il lavoro lo terminerà lui. Papà Ovidio non rientrerà più in officina e Dino ci resterà attaccato per sempre. Inizia a costruire cancelli, ringhiere, grate, soppalchi in ferro, le strutture di metallo dei tetti, gli ovali delle finestre, porte. Fa il fabbro – carpentiere per ditte in Sabina, in provincia di Perugia, in provincia di Arezzo, ad Aprilia, Settebagni, a Sellano in Valnerina dopo il terremoto del 1979.

Nei primi anni Ottanta lo chiama l’architetto Mario Ridolfi che già vive a Marmore nella sua Casa Lina.

“Mi fa costruire ringhiere e cancelli disegnati da lui – racconta il fabbro – per la sua villa e per una accanto. Li ho realizzati con amore. Era il periodo in cui Ridolfi stava disegnando il nuovo palazzo degli uffici comunali, il cosiddetto Uovo che sarebbe dovuto sorgere a fianco di Palazzo Spada e che la mancanza di soldi e la miopia della politica ternana non hanno permesso di realizzare. Nel 1984, lo ricordo bene, riparai per Ridolfi il maialino segna vento; s’era rotto un cuscinetto. Subito dopo su Casa bella, la rivista degli architetti, mi fece una bellissima dedica, è uno dei miei ricordi più belli. Dopo qualche giorno si suicidò, era disperato, stava diventando cieco e non poteva più disegnare”.

Un altro incontro importante, sempre negli anni Ottanta, è quello con gli architetti belgi, il capo è Wal Mosselveld, che stanno ristrutturando case e palazzi del borgo di Labro, a picco sul lago di Piediluco, per farne case per le vacanze; un altro architetto importante di quel team è l’italiano Pitoni. “Lì – racconta – facevo porte, finestre, ringhiere lavorate. Lui me le disegnava ed io eseguivo. Sempre in quel periodo ho partecipato al recupero di alcuni casali antichi, in uno a Rocchette, sempre in Sabina, viveva e lavorava un gruppo di ragazzi, gli autori di Enrico Vaime”.

Nel 1989 partecipa alla realizzazione del monumento al carabiniere al cimitero di Terni; lui realizza l’antico cappello a lucerna, in acciaio e rame ma stilizzato, e un vaso di 12 rose. “Ogni anno – spiega – lo vado a ripulire dal guano dei piccioni e dalle ragnatele, è ancora intatto”. Sempre in quegli anni realizza la corona d’alloro per il monumento agli invalidi sul lavoro davanti all’Istituto alberghiero, alle ex Bosco, “con 750 foglie”. Nel 2001/2002 partecipa, insieme allo scultore Gianni Manzini e all’architetto Luca Volpi che ha progettato l’opera, alla realizzazione in basilica del nuovo altare in ferro e bronzo al cui interno c’è la teca con le reliquie di San Valentino.

Nel 1999 inizia la lunga stagione dei presepi, tutti ovviamente in metallo. Il primo davanti a casa sua, a Marmore: qualche personaggio di ferro, il fiume, altre parti, il tutto all’interno di un mondo che è un quarto di sfera. Poi la Confartigianato inizia la mostra dei presepi artigiani, prima a piazza Tacito poi al salone delle esposizioni della Camera di commercio. D’Ascenzo partecipa a tutte le edizioni, fino al 2015, l’anno dell’ictus che di fatto segna la fine della sua attività di lavoro; resterà quella amatoriale, tutt’ora in corso. Alcuni presepi in ferro sono in esposizione presso la sede di Confartigianato; uno è in mostra presso la Domus Gratiae: “L’ho realizzato in fil di ferro mentre facevo la riabilitazione, gliel’ho lasciato per ricordo”.

Sempre in quegli anni c’è ogni primavera uno stand con i suoi oggetti presso la Città del maggio alla Passeggiata ed è in una di quelle esposizioni che viene notato dal regista Ivan Tanteri.

I ricordi

I ricordi vanno avanti e indietro. Nel 2001, il primo anno di Bicincittà, spuntano in centro tra la folla di ciclisti tre strane biciclette, sono gli antichi velocipedi o bicicli, ruota grande e ruota piccola, interamente in metallo: una è inforcata da Dino, un’altra dal figlio Federico e la terza da Luca, un amico di Federico. Dino D’Ascenzo con i folti baffi neri a manubrio sembra uscito da una foto in bianco e nero dell’Ottocento.

I velocipedi o bicicli da lì in poi saranno una costante della sua vita d’artigiano: glieli chiedono un po’ tutti. Un suo biciclo è in un, ricchissimo di cimeli, museo privato dell’Arma dei Carabinieri a Zero Branco, in provincia di Treviso, ricostruito con precisione sulla base di foto dell’epoca. L’Arma ricambia il favore e nel 2018 lo invita a partecipare a una cerimonia di rievocazione sul Monte Grappa, nel centenario della battaglia: “Mi danno l’onore di indossare una divisa storica autentica di carabiniere”.

In sella al velocipede D’Ascenzo compare anche in un cortometraggio in bianco e nero realizzato dal regista e attore Ivan Tanteri, che lo fa partecipare, baffoni, cilindro, giacca scura e ovviamente biciclo a un suo spettacolo itinerante che va in giro per tutta Italia. Lo spettacolo con Tanteri viene rappresentato anche a Città del Messico. Per l’occasione, D’Ascenzo realizza un biciclo pieghevole che mette in valigia insieme agli altri costumi di scena e insieme partono in aereo per il Messico. Dino recita pure in uno spettacolo, sempre di Tanteri, dove all’interno ci sono anche poesie scritte dal figlio Federico. Mentre ricorda, ne recita una: “Il tempo è mio amico…”. Un primo stop al suo tempo arriva a ottobre del 2015 quando l’artigiano, ancora pieno di energie e di entusiasmo, viene colpito da un ictus. Riesce a superarlo grazie alle cure e alla riabilitazione, ma la malattia gli lascia delle conseguenze. Decide, a 63 anni, di smettere il lavoro di fabbro e di andare in pensione. Ormai fa solo piccoli oggetti per passione che poi regala: piccoli bicicli usati anche come bomboniere; l’idea gli viene dal matrimonio del figlio Fabio, poi fiori, vasi, contenitori per oggetti.

Oggi

Ormai la sua bottega da fabbro a Marmore è solo un grande album dei ricordi. I figli Fabio e Federico hanno preso altre strade professionali. Il bilancio è agrodolce: “La professione di fabbro – conclude Dino D’Ascenzo – mi ha dato grandi soddisfazioni, anzitutto quella di plasmare il ferro riscaldato e reso malleabile dalla forgia. La soddisfazione di lavorare con grandi architetti e ingegneri e di essere apprezzato da loro. Ormai l’artigiano individuale non esiste più; tutti lavorano con lo stampo, con i processi industriali e il prodotto è tutto uguale. Pochi capiscono la bellezza dell’oggetto fatto a mano, sempre diverso, tutti guardano al risparmio. Ci ho guadagnato? Ho tirato avanti una famiglia e mi basta. Oggi guardo un oggetto e mi sembra impossibile che sia stato fatto con la forgia e con le mie mani”.